"Le rappresentanze sindacali unitarie nel pubblico impiego"
Antonio Di Stasi
Di seguito si riportano alcuni stralci del libro di cui sopra dietro gentile concessione della Giappichelli editore. Riportiamo di seguito i paragrafi 6 e seguenti del Capitolo
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Si pone, cioè, l’ulteriore problema della sindacabilità
esterna, o interna sull’uso-abuso del potere disciplinare dell’associazione
sindacale e/o della RSU.
Per risolvere questa ulteriore questione si ritiene di dover
valutare che i seggi, in base all’art. 17 Regolamento, sono attribuiti alle
liste e sono assegnati nominalmente in relazione ai voti di preferenza ottenuti
dai singoli candidati e in caso di parità di voti di preferenza vale l’ordine
all’interno della lista.
Inoltre, il sistema è stato previsto per accertare la
rappresentatività di un determinato sindacato.
Si potrebbe, quindi, sostenere che il tradimento del
sindacato da parte del componente nelle cui liste è stato eletto, e il
passaggio ad un altro sindacato, senza che questa adesione sia verificata, sotto
il profilo del consenso degli elettori di quella lista sindacale, alteri la
genuinità dell’indice di rappresentatività.
Tale argomento potrebbe essere agevolmente superato sulla
considerazione che la normativa ha previsto una sorta di cristallizzazione del
dato elettorale: una sorta di doppio binario per cui la rappresentanza sindacale
unitaria una volta eletta vive le sue vicende modificative senza interferire con
il dato elettorale utile per la quantificazione della rappresentatività.
Non può, pertanto, essere il rischio di alterazione del
sistema di misurazione della capacità rappresentativa un dato decisivo, potendo
gli eletti trasmigrare e cambiare “casa” senza incidere sulle percentuali di
successo elettorale dei sindacati in competizione.
Infatti, in base all’art. 19, 5° co., CCNL Quadro, l’ARAN,
salvo che nel periodo transitorio, procede all’accertamento della
rappresentatività delle associazioni sindacali in corrispondenza dell’inizio
di ciascuna stagione contrattuale di riferimento nonché all’inizio del
secondo biennio economico della stessa.
A tale scopo vengono presi in considerazione i dati
associativi relativi alle associazioni sindacali risultanti nel repertorio delle
confederazioni ed organizzazioni sindacali operanti nel pubblico impiego
aggiornato al 31 gennaio dello stesso anno in cui si procede alla rilevazione
nonché gli ultimi dati disponibili relativi alle elezioni delle RSU.
L’ipotesi paventata, e cioè che qualche sindacato
inserisca nel suo statuto norme ad hoc, sulla incompatibilità e
decadenza del componente di RSU in conflitto con il sindacato nelle cui liste è
stato eletto, al di là della esigibilità e degli strumenti per ottenere la
decadenza (voto della stessa RSU, intervento giudiziale?) potrebbe trovare un
qualche fondamento dall’analisi di altri dati positivi.
Se la legge consente al sindacato di presentare e quindi far
eleggere i rappresentanti unitari potrebbe essere ragionevole sostenere che il
sindacato abbia il potere di disconoscere il “proprio” rappresentante.
In tal senso, la fattispecie dovrebbe essere ricostruita,
più che in termini di revoca o annullamento della rappresentanza, come una
incompatibilità sopravvenuta che permette al sindacato di decidere di attivare
una sorta di atto uguale e contrario a quello della inclusione nella propria
lista.
Il problema della investitura elettorale potrebbe essere
superato se si ricostruisse la partecipazione alla competizione elettorale come
una competizione non tra persone ma tra liste sindacali, con diversi programmi.
In fondo la sostituzione del rappresentante divenuto incompatibile si avrebbe
con un rappresentante anch’esso eletto dai lavoratori.
Altro argomento, potrebbe essere ricavato dall’art. 10 del
Regolamento RSU, in base al quale viene in rilievo, sotto il profilo della
attribuzione della volontà dell’elettore, non il voto di preferenza bensì il
voto di lista.
Opzione chiaramente indicata allorquando si prevede (3° co.)
che nel caso di voto apposto ad una lista e di preferenze date a candidati di
altre liste, si considera valido solamente il voto di lista e nulli i voti di
preferenza.
In conclusione, però, si può eccepire che tali elementi
normativi sono dettati per interpretare la volontà dell’elettore e quindi per
determinare il peso elettorale di ogni sindacato e non possono assumere rilievo
decisivo per la soluzione del problema in argomento.
La questione trova, invece, un punto risolutivo nella
considerazione che il passaggio attraverso il momento elettorale universalistico
non è ininfluente per la determinazione dei rapporti tra componente della RSU e
sindacato nelle cui liste è stato eletto.
Già con riferimento ai principi contenuti nelle RSU “pattizie”
si rinviene una giurisprudenza per la quale la disdetta dall’iscrizione al
sindacato che ha presentato una lista nelle elezioni della RSU, da parte di un
lavoratore eletto membro della RSU in quella lista, è inidonea a far venir meno
tale qualità di membro di RSU (Pret. Milano, 7 aprile 1997, in RCDL 1997,
747, con nota di Capurro).
Il passaggio elettorale comporta una modificazione funzionale
profonda; ci si passi l’espressione: il figlio non è il padre.
L’ascendenza non può prevaricare la distinzione perché c’è
stato un apporto, di “gameti”, di un altro soggetto, la comunità di lavoro
nella sua interezza e nel segreto dell’urna.
Tra l’altro se il sindacato e la propria componente di RSU
fossero la stessa cosa non si giustificherebbe la possibilità di costituire
terminali associativi o comitati di iscritti, questi sì, organi interni del
sindacato, nella medesima unità amministrativa.
Di seguito si riportano i paragrafi 5.1 e seguenti del
Capitolo settimo: Diritti, guarentigie e tutela giudiziaria
5.1. Segue. b) le controversie in materia di comportamenti antisindacali
Legislazione art. 28 Stat. Lav. - art. 68, d.lg. n. 29
del 1993 - art. 4, legge l. n. 83 del 2000.
Bibliografia Amirante 1999 - Barbieri E.M. 2000 -
Miscione 2000 - Sordi 2000 - Trisorio Liuzzi 2000.
La lunga marcia di avvicinamento della disciplina del settore
pubblico a quella del settore privato, scandita da provvedimenti e con tempi
diversi per quel che riguarda i diritti sindacali rispetto ai diritti inerenti
il rapporto individuale, trova con le riscritture di molti articoli del d.lg. n.
29 del 1993, ad opera della tornata di decretazione del 1997-98, un epilogo
complessivo che si riflette anche sull’abbandono di ogni diversità di
trattamento per quanto riguarda le ipotesi di comportamento antisindacale.
L’art. 34 del d.lg. n. 29 del 1993, riscritto dal d.lg. n.
80 del 1998, definitivamente unifica il trattamento con il settore privato
stabilendo che “sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del
lavoro, le controversie relative a comportamenti antisindacali delle pubbliche
amministrazioni ai sensi dell’art. 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300”.
In verità la precedente disciplina contenuta nell’art. 6
della legge n. 146 del 1990, aggiungendo due commi all’art. 28 Stat. Lav.,
aveva esteso l’applicabilità del procedimento per la repressione della
condotta antisindacale alle controversie nei confronti di una amministrazione
statale o di una altro ente pubblico non economico, attribuendo al giudice
ordinario la giurisdizione in materia e riservando al giudice amministrativo
solo le controversie in cui il sindacato, oltre alla tutela del proprio diritto
soggettivo, richiedeva la rimozione dei provvedimenti amministrativi lesivi
delle situazioni soggettive tutelate, sinteticamente definiti come comportamenti
plurioffensivi.
Come subito notato, l’art. 68 non abrogava il testo dell’art.
6 della legge n. 146 del 1990 e quindi tale disciplina residuava, come residua
lo statuto pubblicistico, per quelle categorie di funzionari della pubblica
amministrazione escluse dalla privatizzazione e cioè per i rapporti di cui all’art.
2, 4° e 5° co., del d.lg. n. 29 del 1993 (in tal senso Sordi 2000, 344-345 a
cui si rimanda per i riferimenti dottrinali antecedenti; contra Trisorio
Liuzzi 2000, 1848).
Successivamente, in sede di riforma della disciplina dello
sciopero nei servizi pubblici essenziali, con l’art. 4 legge n. 83 del 2000,
il legislatore ha colto l’occasione (Miscione 2000, 147) per risistemare la
materia della condotta antisindacale nel lavoro pubblico, abrogando
esplicitamente il 7° e 8° co. dell’art. 28 Stat. Lav. (introdotto dall’art.
6 della legge n. 146 del 1990).
Da questo intervento di pulizia, i primi commentatori
ritengono di poter affermare che, oggi, per la repressione condotta
antisindacale la competenza è del giudice ordinario pure se il comportamento
antisindacale lamentato riverberi i suoi effetti su magistrati, diplomatici,
militari e poliziotti, professori e ricercatori universitari e su gli altri
dipendenti pubblici non “privatizzati” (Miscione 2000, 158), il che però
potrebbe non essere così pacifico nel caso di condotta plurioffensiva, se si
interpretasse il 3° co. dell’art. 68, d.lg. n. 29 del 1993 in modo
sistematico e “collegato” alla previsione contenuta nel 1° co. che afferma
la competenza del giudice ordinario per le controversie dei “privatizzati”.
Certo è che una volta ammessa la competenza del giudice
ordinario a questo va riconosciuto ogni più vasto potere (sull’elemento
soggettivo nella condotta antisindacale, da ultimo, v. Barbieri E.M. 2000, 845
ss.) non solo in sede di condanna, ma anche di rimozione degli effetti “ancorché
vengano in questione atti amministrativi presupposti”, i quali, se ritenuti
illegittimi, potranno essere disapplicati dal giudice ex art. 68, 1° co.
(Amirante 1999, 1453).
I dubbi sorti con riferimento ai limiti del potere del
provvedimento giudiziale in sede di rimozione degli effetti nel caso in cui il
giudizio cada su un provvedimento amministrativo sono facilmente superabili
stante la funzione, diremmo prevalente, che il legislatore ha ritenuto di
riconoscere all’art. 28 Stat. Lav. rispetto al classico divieto del giudice
ordinario di annullare gli atti della pubblica amministrazione. La stessa Corte
di Cassazione ha già espressamente riconosciuto in capo al giudice ordinario,
nelle controversie relative al comportamento antisindacale, il potere di
annullare gli atti dell’Amministrazione (v. Cass. 14 febbraio 1997, n. 1398,
in FI 1999, I, 620 con nota di D’Antona; in dottrina, da ultimo, Sordi
2000, 346).
Sotto questo profilo la decisione del Supremo Collegio, che
si condivide, trova una ragione nello stesso spirito della riforma per cui nel
caso di provvedimenti amministrativi che limitano diritti sindacali opera una
sorta di presunzione che li fa ritenere effetto di quella attività di micro
amministrazione che, con la seconda privatizzazione, rifugge da una natura
pubblicistica potendosi paragonare a meri atti di gestione privatistica del
rapporto.
5.1.1. Segue. La legittimazione ad agire ex art. 28 Stat. Lav.
Legislazione art. 28 Stat. Lav. - art. 10 Accordo RSU.
Bibliografia Bonardi 1993 - Chiusolo 1997 - Di Stasi
1994b - Fiorillo 1999 - Garofalo 1979 - Novella 1997 - Pandolfi 1993 - Papaleoni
2000 - Santoro Passarelli 1996 - Scarponi 2000 - Tampieri 1999.
L’art. 68, 3° co., d.lg. n. 29 del 1993 rinvia in toto
all’art. 28 Stat. Lav., con ciò non risolvendo gran parte dei problemi posti
da quella norma dal momento che riconosce la legittimazione ad agire per
comportamento antisindacale agli “organismi locali delle associazioni
sindacali nazionali che vi abbiano interesse”.
La giurisprudenza è sempre stata concorde nel ritenere che
la legittimazione ad agire ex art. 28 Stat. Lav. spetti all’istanza
territoriale più periferica del sindacato nazionale, come tale più vicina alla
situazione che costituisce oggetto del procedimento di repressione della
condotta antisindacale (Pandolfi 1993, 618).
È stata così negata, per molto tempo, la
legittimazione ad agire con il procedimento speciale sia alla RSA che alle forme
organizzatorie della autotutela dell’interesse collettivo diverse da quelle
poste all’interno di sindacati nazionali, finché nella giurisprudenza
di merito ha iniziato a manifestarsi la tendenza ad ampliare la legittimazione
attiva al fine di consentire ad altre organizzazioni sindacali, pur non
nazionali, l’utilizzazione della speciale procedura di repressione della
condotta antisindacale (v. Novella 1997, 81).
L’esclusione della titolarità in capo alle RSA viene fatta
discendere dal fatto che questi organismi rappresentativi le RSA hanno
poteri esclusivi e che geneticamente la loro costituzione è dovuta all’iniziativa
dei lavoratori (Belfiore 1978, 16), ma più recente dottrina ha messo in
evidenza che, comunque, alla luce della attuale configurazione delle RSA la
nomina di tali organismi può avvenire anche tramite designazione diretta da
parte del sindacato la cui rappresentatività è misurata su base nazionale. In
questo modo il vincolo associativo risulta rafforzato, “e di conseguenza non
possono sussistere dubbi che le RSA siano organismi dei sindacati che
procedono alla loro costituzione, e che, a loro volta, soddisfano l’ulteriore
requisito previsto dall’art. 28, ovvero la dimensione nazionale, in virtù dei
parametri di rappresentatività contenuti nell’art. 47 bis” (Scarponi
2000, 1390).
Con riferimento alla esclusione della titolarità in capo a
forme organizzatorie diverse da quelle del sindacato nazionale, la questione si
è posta in termini di illegittimità costituzionale della norma.
Ma se, come noto, la sent. n. 54 del 1974 della Corte
costituzionale ha escluso la violazione del principio di eguaglianza affermando
che la differenza di trattamento è giustificabile alla luce della maggiore
rappresentatività ed affidabilità dei sindacati nazionali (per la critica
a tale motivazione v. Garofalo 1979, 199), ora, alla luce del meccanismo per cui
la capacità rappresentativa dell’organismo pluralista ed unitario a livello
di azienda è non tanto verificato quanto elemento suo costitutivo, viene meno
la ratio di esclusione di un tale riconoscimento.
La RSU qualificandosi come organismo pluralista ed unitario
del sindacato, dei sindacati, è chiaramente qualcosa di più dell’organismo
locale del sindacato nazionale.
Di fondamentale rilievo è la considerazione che con l’Accordo
RSU le principali organizzazioni sindacali nazionali e la controparte datoriale
hanno “riconosciuto” le Rappresentanze Sindacali Unitarie come organismo
sindacale locale (cfr. art. 10 Accordo RSU, meglio conosciuto come “clausola
di salvaguardia”).