Il contraddittorio legame tra le trasformazioni economico-produttive e alcuni passaggi-chiave della storia del movimento sindacale dal dopoguerra ad oggi (seconda parte)
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
Sabino Venezia
Dal conflitto permanente alla “partecipazione” concertata
Questo lavoro costituisce una prima bozza di discussione che la redazione di PROTEO presenta ai propri lettori dalle cui osservazioni ci proponiamo non solo di “imparare” su un argomento storico-economico tutto aperto, e in cui sicuramente non siamo specialisti, ma anche di prender spunto per le eventuali correzioni di impostazione e gli ulteriori approfondimenti. |
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La nuova politica sindacale non sarà accettata dai settori
operai più radicali, che in primavera terranno al Teatro Lirico di Milano un’assemblea
operaia autoconvocata.
Forse è dalla vittoria del PCI del 1976, con la sua
involuzione di compromesso consociativo, che inizia la vera crisi del sindacato
che con la politica dei sacrifici prima, della concertazione poi, non vuole più
assolvere al compito di trasformare le lotte in fabbrica in
conquista/cambiamento sociale. Questa svolta involutiva sul piano anche delle
conquiste della democrazia operaia passa attraverso la ristrutturazione (nella
quale il sindacato tradizionale è parte attiva dalla “svolta dell’EUR”)
che permette al capitalismo italiano di liberarsi dell’“operaio massa” a
vantaggio di una nuova categoria, teoricamente dedotta e prefigurata, l’“operaio
sociale”: “dinanzi alle imponenti modificazioni provocate - o in via di
essere determinate - dalla ristrutturazione, il corpo di classe operaia si
distende e si articola in corpo di classe sociale[...]. Dopo che il proletariato
si era fatto operaio, ora il processo è inverso: l’operaio si fa operaio
terziario, operaio sociale, operaio proletario, proletario” [1].
Sul finire degli anni ’70, il sindacalismo italiano
registrerà fratture insanabili con il movimento operaio, in un contesto che va:
- dal consolidarsi dell’esperienza della lotta armata di
fabbrica a quella di contesto “diffuso”, fino al progetto del “colpire
al cuore dello Stato” [2]
- al “compromesso storico”
- alla “svolta dell’EUR”, [3] che segnerà un
capovolgimento radicale nella strategia sindacale
- al rapimento e all’uccisione dell’On. Moro [4]
- alla conclusiva disfatta della trattativa FIAT dell’80.
7. Gli anni ’70 e la politica in fabbrica: il ruolo della sinistra
operaia modifica il sistema aziendale sul piano delle relazioni industriali
Le lotte degli anni ’60 avevano mandato in crisi gli
assetti aziendali e modificato l’organizzazione del lavoro: non era più
pensabile un regime “militare” in fabbrica, pena lo sciopero improvviso di
un reparto o di una squadra; non erano più tollerabili i sistemi di cottimo
perché incompatibili con le varie forme di protesta (dallo sciopero del
rendimento alla autolimitazione dei ritmi); la dinamica salariale non accettava
soste e gli stipendi erano in ripresa. In conseguenza di tutto questo, l’aumento
delle politiche repressive fu immediato: dall’uso punitivo della Cassa
Integrazione alle denunce verso chi partecipava a cortei interni o picchettaggi,
dai licenziamenti disciplinari alla sospensione del salario a quanti avevano
partecipato a varie forme di protesta. Ma anche la risposta operaia non
scherzava: il conflitto permanente divenne una costante, anche nei presunti
periodi di tregua post-contrattuale, conflitto permanente che vide spesso lotte
dure in contrapposizione a CGIL-CISL-UIL ma sempre al fianco della sinistra
operaia.
Fu proprio in questo contesto che la sinistra di classe, mai
maggioranza tra i movimenti, riuscì ad esercitare una sorta di egemonia
politica fino a farsi “inseguire” dal sindacato.
“si è già visto che il punto di forza della sinistra
di fabbrica, ed in generale di tutto il movimento, era la dimensione aziendale.
I Consigli erano eletti su base aziendale, la sinistra di fabbrica si
articolava, essenzialmente, per CUB o Collettivi di Azienda, più o meno
coordinati tra loro, le forme di lotta avevano la loro massima efficacia nei
confronti della singola azienda. Dunque non stupisce che la contrattazione
aziendale rappresentasse il punto critico dell’intero sistema di relazioni
industriali. In quella sede il sindacato subiva al massimo l’iniziativa del
movimento essendo costretto, il più delle volte, ad inseguire la sinistra
operaia sul suo terreno. Viceversa, la contrattazione nazionale di categoria (e
più ancora i negoziati a livello confederale) rappresentavano il momento di
massima autonomizzazione del sindacato dal movimento. Divenne quindi essenziale
distruggere il ruolo politico della contrattazione aziendale per sottrarre alla
sinistra del movimento il suo terreno di scontro più favorevole. Una serie di
materie vennero quindi riportate in sede di contrattazione nazionale (molteplici
aspetti della contrattazione sull’organizzazione del lavoro, sull’orario, e,
ovviamente, sulla normativa) mentre essa veniva sostanzialmente svuotata dei
suoi contenuti salariali. Proprio in quegli anni, infatti, si concludeva l’accordo
sul punto unificato di contingenza (’75) e si ampliava la gamma di automatismi
salariali (scatti di anzianità, passaggi automatici di categoria, ecc.). In
particolare l’accordo sul punto unico di contingenza otteneva una serie di
effetti: da un lato esso diveniva un potente fattore di appiattimento
retributivo (in pochi anni i differenziali crollarono), dall’altro esso finì
per assorbire quasi per intero la dinamica salariale. Infatti l’infuriare
della spinta inflattiva fece scattare a ripetizione i punti di contingenza con l’effetto
di rivalutare maggiormente i salari più bassi rispetto a quelli più alti.
Naturalmente, essendo le categorie più basse le più numerose, ogni scatto
finiva con il costare alle aziende in modo più che proporzionale. In questo
modo i margini di dinamica salariale finivano per essere assorbiti in buona
parte dalla contingenza, mentre un’altra parte veniva assorbita dagli altri
automatismi, una terza infine, dalla contrattazione nazionale. Per la
contrattazione aziendale non restò che una parte irrilevante.
Lo svuotamento della contrattazione aziendale, il
rafforzamento dell’apparato sindacale, gli effetti della ristrutturazione
finirono per avviare il declino dei Consigli, sempre più abitati da “delegati
a vita” e sempre meno in grado di esercitare un reale ruolo politico e
sindacale”37.
Successivamente, quindi, il padronato attenua la politica
repressiva (per un po’ di tempo) tentando una manovra “su più binari” e,
contro ogni aspettativa, apre il fianco al sindacato, accentuando, fra l’altro,
il dissenso ormai alto tra Organizzazioni Sindacali tradizionali e lavoratori.
Vengono aumentati distacchi, aspettative, presenze
istituzionali e soldi (che in vari modi arrivavano al sindacato) il che permise
a molti delegati “in forza” alla sinistra operaia, di essere cooptati nelle
fila del sindacato confederale e nelle strutture di apparato. La sinistra di
fabbrica, ormai relegata al ruolo di contestatrice, finì per rinunciare al
ruolo antisindacale e molto spesso consentì ai propri militanti l’iscrizione
alle OOSS e la candidatura nei Consigli di Fabbrica.
La crisi della sinistra operaia è forte perché è forte tra
i lavoratori il senso di sfiducia verso il sindacato confederale e di
inadeguatezza delle alternative sindacali e la scelta ricade verso l’imminente
appuntamento politico anche istituzionale- elettorale; la sinistra operaia si
organizzerà, allora, sostanzialmente in tre filoni:
- PRIMO FILONE: finito il PSIUP e nato il PdUP (che si
aggregherà con il Manifesto) si incomincia a pensare seriamente ad una forma di
aggregazione. Avanguardia Operaia ripensò all’antisindacalità come strategia
politica e fece confluire i CUB nel sindacato tradizionale (anche se in effetti
molti CUB non si sciolsero mai), pensando che il progetto di società socialista
poteva realizzarsi con un governo delle sinistre e varie strutture di
contropotere popolare (Consigli di Fabbrica e Comitati Unitari di Zona).
- IL SECONDO FILONE: LOTTA CONTINUA che tentò di aggregare
alcuni pezzi di sinistra operaia e del movimento studentesco per strutturarsi
come partito.
- IL TERZO FILONE: AUTONOMIA OPERAIA, nata dalla crisi di
Potere Operaio e Gruppo Gramsci, (oltre che gruppi minori di area
marxista-leninista e ex Manifesto) ereditò una parte importante dell’operaismo
italiano, l’operaio massa, teorizzando una nuova dimensione e figura di
classe: l’operaio sociale, ed una nuova strategia: il rifiuto del lavoro e l’organizzazione
territoriale del conflitto sociale a partire dalle lotte del nuovo proletariato
metropolitano.
Nel ’76 però la maggioranza della classe operaia si
orientò verso il PCI e la sua strategia di alleanza con la DC nel governo della
“non sfiducia”, per realizzare le tanto attese riforme, e la sinistra di
fabbrica si modificò di conseguenza. Finisce, dopo poco, l’esperienza di
Lotta Continua, si scinde/scioglie il PdUP e nasce Democrazia Proletaria che
riattiva la vecchia rete dei CUB e convoglia una parte di LC.
L’ipotesi di un organismo unitario tra settori dell’autonomia
di classe e DP (Opposizione Operaia) non durò molto;
“per l’area DP il tentativo era quello di costruire un
partito che unificasse stabilmente i movimenti di opposizione al sistema
politico (studenti,sinistra operaia, marginali, ecc.), facendo leva sulle
consuete forme di lotta (scioperi articolati, picchettaggi, ecc.), sulla
struttura organizzativa dei Consigli di Fabbrica e su una pratica articolata fra
presenza nei conflitti sociali e momento istituzionale. In questo senso, massima
importanza era data alle usuali scadenze contrattuali, mentre si cercava di
proseguire in una azione interna-esterna al sindacato (in questo senso venne
fatto qualche tentativo di recuperare la sinistra sindacale che, invece,
preferì restare indipendente tanto da DP che dal PdUP).
L’area dell’Autonomia partiva invece dalla convinzione
del completo esaurimento del ruolo di strutture come i Consigli di Fabbrica, dal
rifiuto di ogni pratica istituzionale o di entrismo sindacale,dal tentativo di
superare le precedenti forme di lotta con pratiche che, pur senza giungere all’ipotesi
militarizzata delle Brigate Rosse, si caratterizzassero per un diffuso utilizzo
di forme di lotta violente (minacce ai capi reparto, gambizzazioni, sabotaggio
della produzione, incendi alle auto dei dirigenti aziendali, ecc.)” [5].
8. Il ’77 e il nuovo proletariato giovanile metropolitano
Si accentua intanto, fuori dalla fabbrica, il dissenso tra il
proletariato giovanile e la “politica istituzionale”, rappresentata dal PCI
e dalla CGIL.
Forte traspare il senso di tradimento del PCI: il governo
delle astensioni, la filosofia dell’austerità e dei sacrifici, il compromesso
storico, ed altrettanto pesante la responsabilità del sindacato che è riuscito
a farsi scippare le conquiste della fine degli anni ’60.
Mentre comincia a farsi concreta la strategia della “politica
dei sacrifici”, il sindacato non si accorge, e quindi non intercetta, il
dissenso crescente che si accumula negli strati più ribelli e politicizzati del
movimento giovanile; un movimento fatto spesso di studenti che hanno una
condizione di lavoro e sociale precaria, marginale, con frequenti rapporti con
il mondo del lavoro nero. Un proletariato giovanile metropolitano che
colpevolizza la sinistra istituzionale ed il sindacato andando a costituire un
nuovo soggetto, il “lavoratore marginale”.
È in questo contesto che Lama arriva all’Università
(occupata) di Roma il 17 Febbraio ’77. La provocazione è eclatante e
scontata: la CGIL tenta di appropriarsi di un luogo che non gli appartiene, l’università;
di una lotta che non gli appartiene, quella dei “marginali” e tenta di farlo
con la prepotenza e con la forza della provocazione: un servizio d’ordine di
edili che fin dalle prime ore aveva provveduto a cancellare dai muri le scritte
e che si era schierato a difesa di un palco montato su un camion e dotato di una
amplificazione assordante. Nello scontro che ne seguì “il sindacato ed il
PCI ti venivano addosso come la polizia, come i fascisti. In quel momento era
chiaro che c’era una rottura insanabile tra noi e loro. Era chiaro che da quel
momento quelli del PCI non avrebbero avuto più diritto di parola dentro il
movimento” [6]. E fu rottura completa che sancì
la quasi totale adesione del movimento alle tesi dell’autonomia di classe non
organizzata e ad alcuni settori dell’Autonomia organizzata.
9. Repressione, crisi del movimento e la “risposta” armata
L’attenuarsi dell’iniziativa politica del movimento del
’77, dovuta anche alla grande repressione giudiziaria e sociale che, con la
complicità attiva di settori della sinistra storica e del sindacato, realizza
un completo controllo coattivo delle lotte, porta come conseguenza alla ripresa
di una forte iniziativa delle Brigate Rosse e delle organizzazioni armate. È
quindi chiaro che è proprio il contesto repressivo e la militarizzazione del
territorio che induce molti militanti del nuovo soggetto giovanile politicizzato
ad una sorta di delega vedendo spesso nella “risposta armata l’unica
possibilità di opposizione reale, coinvolgendo il movimento in uno scontro
frontale perdente” [7].
Ma in realtà la battaglia “contro il terrorismo” viene
usata per altri fini, per sconfiggere la protesta sociale animata dalla sinistra
rivoluzionaria ed in particolare per sconfiggere l’insubordinazione operaia
che aveva reso ingestibile il comando capitalistico in azienda imponendo le
determinanti dell’autonomia di classe.
Dopo la crisi dei movimenti seguita al caso Moro, la sinistra
di fabbrica registra la spallata finale. Il terrorismo fornisce l’alibi ai
diversi apparati coercitivi dello Stato per reprimere quanto si muove al di
fuori della sinistra parlamentare e la borghesia industriale, sempre attenta,
sfrutta il contesto e alza il tiro. Nell’“Ottobre ’79, la FIAT
licenziava 61 militanti delle sinistra operaia per una serie di addebiti
disciplinari. La debole reazione dell’intera classe operaia dell’azienda
(agli scioperi partecipò una percentuale molto modesta di lavoratori) consentì
il successo dell’operazione. ... La comparsa di un articolo di Amendola su
Rinascita, nel quale si delineava l’equazione fra sinistra operaia radicale e
terrorismo” [8]. Per la sinistra di fabbrica e per la soggettività dell’autonomia
di classe, unico vero elemento di stimolo per il movimento sindacale, fu
isolamento completo; ricorda a tal proposito Luciano Lama: “avevamo fatto
quadrato sulla vicenda dei sessantuno. E facemmo quadrato anche dopo. Non so se
fosse davvero una sorta di prova generale della FIAT. Un rapporto ci può essere
nel senso che avremmo dovuto cogliere quel segnale per andare più a fondo nella
situazione della FIAT. Questo non l’abbiamo fatto. Fu un errore politico,
quindi” [9].
Lo sciopero di protesta contro il licenziamento dei 61,
indetto dalla Flm, fallisce, segno che qualcosa sta cambiando nelle fabbriche; c’è
una esigenza di ritorno all’ordine anche da parte degli operai vicini al
Partito Comunista, dopo anni di martellante propaganda dello Stato e del PCI “contro
il terrorismo”; che significava reprimere la sinistra di classe per
sconfiggere il progetto dell’autonomia di classe.
Un anno dopo il sindacato capitola; 40.000 capi reparto e
dirigenti manifestano contro lo sciopero e CGIL - CISL - UIL accettano
sostanzialmente il licenziamento dei 23.000 della FIAT [10] ammettendo, di fatto, una
debolezza strategica che non avrà uguali se non negli anni della concertazione.
10. La fine degli anni ’70 e la ristrutturazione capitalistica
Nonostante le difficoltà oggettive e soggettive del sistema
Italia nel periodo 1963-1980, c’è da dire, però, che l’andamento dell’economia
italiana è decisamente superiore a quella media degli altri paesi (Germania e
Francia). Il vero neo rimane quello di non riuscire ad occupare tutta la forza
lavoro. Infatti, la disoccupazione è in lento, ma costante aumento (passa dal
3,9 del 1963 al 7,6 nel 1980). Preme sottolineare, considerando anche la forte
compressione dei margini di profitto, che gli investimenti e le imprese italiane
non ne risentono: la loro quota sul prodotto interno lordo rimane in linea con
quella delle maggiori nazioni industrializzate e ciò grazie agli incrementi di
produttività non ridistribuiti a salario. Cambia, però, la tipologia di
investimento: si riducono gli investimenti nei nuovi insediamenti produttivi, ma
aumentano sensibilmente quello destinato a macchinari e impianti; questo con il
fine di aumentare l’efficienza in modo da risparmiare sia lavoro che energia.
Se le grandi industrie escono malconce da questo periodo di
pressioni politico-sindacali, i distretti industriali, di fatto estranei allo
scontro sociale e di fabbrica, ritrovano in questi anni un nuovo vigore.
Infatti, le economie dei distretti iniziano a manifestare tutte le loro
potenzialità, anche perché più facilmente adattabili alle mutazioni del
mercato. A dimostrazione di ciò la struttura dell’Industria italiana presenta
caratteristiche nettamente diverse dai due decenni precedenti. Negli anni che
vanno dal il 1971 e il 1991, la percentuale di aziende presenti nella classe
1-9, è pari all’86%; la percentuale è molto alta nel settore dei servizi.
La crisi petrolifera del 1973, l’abbandono del settore
agricolo e la crisi valutaria del nostro Paese hanno provocato una battuta di
arresto nella crescita economica dell’Italia che era arrivato in pochi anni a
divenire il settimo paese più industrializzato al mondo.
E questa situazione è continuata anche negli anni ’80
anche se dal 1984 si è avuta una moderata ripresa economica.
Riprende a crescere il peso dell’occupazione nelle imprese
di piccolissime dimensioni e contemporaneamente cala l’occupazione nelle medie
e grandi imprese con una riduzione pari a 11 punti percentuale in venti anni.
C’è da dire, però, che la rinascita dei distretti non
avviene simultaneamente in tutta la penisola, ma solamente nelle regioni
centro-settentrionali. Va sottolineato, inoltre, che la maggior parte dei
distretti di questi anni sono “nuovi”; dei vecchi, infatti, solo il 16%
sopravvive.

11. La “svolta dell’Eur”: l’abbandono del terreno
di classe e la “politica dei sacrifici”
Se gli anni ’70 passeranno alla storia come gli anni della
“democrazia dei Consigli”, gli anni ’80 registreranno un carattere
verticistico del sindacato e la conseguente perdita di democrazia interna, fino
al baratto degli interessi dei lavoratori con quelli del sindacato. Al pari del
ventennio fascista, che vedeva il sindacato come strumento di consenso per il
regime [11], negli anni ’80 il consenso è verso le imprese che lo
utilizzano per meglio sviluppare il nuovo modello capitalistico, in una fase,
quella post-keinesiana, che sarà il preludio dello smantellamento dello stato
sociale nel decennio successivo. L’impotenza del sindacato di fronte alla
necessità di cambiamento è reale, al pari della perdita di consenso che si
registra nelle maggiori confederazioni.
“Man mano che si riduce l’area dell’operaio massa e
la struttura della forza lavoro e del mercato del lavoro si frammentano e si
cristallizzano secondo linee di rigida gerarchia professionale, sociale e di
reddito, il sindacato perde i suo potere come forza della società ed è spinto
a restringere la base dei consensi organizzati per occupare un’area sempre
più prossima a quella delle istituzioni pubbliche, traendo da ciò nuova
legittimità per un nuovo tipo di potere” [12].
Il sindacato può solo impegnarsi ad indirizzare i lavoratori
verso una politica di sacrifici costringendo il salario a diventare una
variabile dipendente dal sistema economico del Paese. E, su questa linea, il
sindacato concertativo perde pesantemente rappresentatività e funzione nel
mondo del lavoro, specie in quello operaio, tanto da fallire miseramente la
trattativa FIAT (autunno ’80) sulla cassa integrazione, per sette giorni a
78.000 dipendenti, trattativa che Romiti interrompe per annunciare 14.469
licenziamenti prima e, a Governo Cossiga praticamente caduto, la cassa
integrazione per 23.000 operai del settore auto. È la “lotta dei 35 giorni”
e dei 23.000 cassintegrati della FIAT. La risposta del sindacato è forte ma
inconcludente. Il 14 Ottobre, mentre è in preparazione una manifestazione
sindacale al Teatro Nuovo di Torino e la fabbrica è presidiata dai
picchettaggi, alcuni capi squadra e operai entrano nei reparti e attivano le
catene di montaggio, contemporaneamente 40.000 “colletti bianchi” in corteo
sfilano per la città. Molti operai e impiegati vanno al Teatro Nuovo a
contestare i sindacati: con le loro critiche, coi loro insulti e con una pioggia
di monetine che solo dopo molti anni si ripeterà verso quel livello di
degenerazione della politica che coinvolgerà molti esponenti di governo nella
fase di “tangentopoli”.
Alla fine degli anni ’70, quindi, il sindacato,
tragicamente in crisi con la propria base sociale, accetta di essere cooptato
nei centri decisionali dalla classe industriale e dalle istituzioni governative,
rivendicando un ruolo istituzionale-consociativo da sempre perseguito ed anche
fattivamente praticato nel dopo guerra.
“la crisi economica rendeva certamente difficile
pretendere troppo per i lavoratori, ma il sindacato andò oltre, si fece carico
della “compatibilità economica” e del “quadro di insieme”, allo scopo
di arginare la reazione e di salvare i posti di lavoro anche a costo di
rinunciare a qualche tutela.
Giusto o sbagliato che fosse in teoria, ciò contribuì in
pratica, insieme alla crisi economica e all’irrompere delle parole d’ordine
del liberismo, all’inizio di un arretramento dei diritti dei lavoratori, all’inizio
della parabola discendente” [13].
L’umiliazione più pesante avverrà però nell’autunno
dell’80 quando gli industriali imporranno la sconfitta anche del
sindacato-istituzione e, complice lo Stato, si prospetterà, ultima ratio, la
rottura definitiva del sindacato con la logica della rappresentanza sociale e la
trasformazione in una soggettività facilmente integrabile nell’apparato dello
Stato e nel sistema delle imprese.
La fase della “democrazia autoritaria” che ne
consegue è fatta da rapporti alterati tra lavoratori, Consigli e sindacati; è
fatta di ratifica, di assemblee dove tutto è già deciso dal vertice, della
palese negazione di un ruolo specifico ai delegati; una forma di autorità che
si sviluppa in assenza di regole certe, di elezioni democratiche, contribuendo
alla sopravvivenza di una classe sindacale dirigente ormai da tempo inadeguata.
Come se non bastasse si apre ulteriormente il capitolo della
repressione:
Dei 61 lavoratori licenziati dalla FIAT perché accusati di
violenze, 5 saranno poi condannati per banda armata; è un segnale forte, il
padronato non è più disposto a tollerare la provocatoriamente definita
violenza ed estremismo in fabbrica. La repressionesi rivolge non solo e non
tanto contro i militanti delle organizzazioni armate, ma contro le centinaia di
avanguardie protagoniste delle lotte di fabbrica e dell’insubordinazione
operaia. Secondo la Fiat, nel ’78 più di 40.000 ordini erano rimasti inevasi
a causa della conflittualità e della resistenza operaia contro la produzione
intensiva.
La polemica di quegli anni sul costo del lavoro fece
emergere, all’interno del sindacato, un gruppo dirigente che, accettando gli
elementi di criticità offerti dal padronato, costruiva una linea di strategia
sindacale che aveva come obiettivo la mediazione delle diverse posizioni
attraverso il discorso della ripresa produttiva, della professionalità, del
maggior utilizzo (sfruttamento) della manodopera e degli impianti cioè la “linea
dell’EUR”.
Vedremo come nel 1993 si rispolvereranno questi concetti (mai
rinnegati) attraverso nuove parole d’ordine (flessibilità, concertazione,
ecc.) e non cambieranno nemmeno i fruitori di questa “rinnovata” strategia
rivendicativa (imprenditori del Made in Italy - Confindustria - poteri forti).
“Nella piattaforma - della FLM e di CGIL CISL e UIL del’
79 come del resto in quella dell’83 - tutto o quasi viene indirizzato verso la
lotta per l’occupazione (sono ormai 1.700.000 i disoccupati iscritti), e
questo giustifica tutto, scaricando così di fatto le responsabilita’
accumulate in decenni di rapine contro la classe operaia dal padronato e dalla
D.C..
L’aumento dello sfruttamento della manodopera occupata
(basta vedere le statistiche dell’ultimo periodo: calo dell’occupazione =
aumento della produttività), invece di produrre nuovi posti di lavoro ha
prodotto un maggiore arricchimento per i padroni che a loro volta hanno “sapientemente”
nascosto, ed in quei casi di accordo che li impegnava ad assumere manodopera o
ad investire, i maggiori guadagni, per la costruzione di nuove fabbriche nel Sud
oppure, gestire la “mobilità” contrattata con i sindacati.I risultati sono
sotto gli occhi di tutti: Gioia Tauro non si fa in Calabria ma in Brasile!!; il
nuovo stabilimento dell’ALFASUD, l’APOMI 2. (costato ai lavoratori dell’Alfa
dure lotte e centinaia di ore di sciopero) probabilmente non si farà più e gli
operai sono costretti alla lotta per far mantenere le “intenzioni”di
costruirlo!!!; migliaia di lavoratori ex UNIDAL ancora aspettano, dopo un anno,
un posto di lavoro; dopo 2 anni 1.000 operai dell’INNOCENTI sono ancora in
Cassa Integrazione; le fabbriche chimiche nel Sud dei vari gruppi: SIR,
LIQUICHIMICA, ANIC e MONTEDISON, o sono occupate dai lavoratori o sull’orlo
della chiusura con migliaia di licenziamenti.
Ci sarebbero ancora molti casi che stanno a dimostrare cosa
significa per i lavoratori “voltare pagina” e “nuova strategia sindacale”
e la conseguente POLITICA DEI SACRIFICI!!
Dopo questi fatti, la rottura della “rigidità operaia”,
il rifiuto di alcuni concetti di lotta dei precedenti contratti, smorzare la
carica anticapitalistica degli operai, ecc.....è chiaro che occorre al
sindacato ed al PCI una FIGURA SOCIALE ben definita per poter reggere questa
svolta.
Una figura di “OPERAIO MODELLO” che lavora, non è
assenteista, non protesta troppo, anzi aumenta la produttività e quando occorre
fa anche lo straordinario senza pesare eccessivamente sui costi aziendali cioè:
uno che “ si fa carico dei problemi nazionali” come dicono i “signori”
che capiscono tutto e costruiscono modelli di comportamento per i prossimi
decenni per i lavoratori. Ma per questo serve anche un sostegno politico e
sociale certo e controllabile, il sindacato ed il PCI (smanioso di dimostrare la
propria capacità di governo) con le loro teorie si prestano ben volentieri all’operazione.
Il controllo della forza lavoro, sia in termini rivendicativi
che antagonisti, diviene un elemento strategico per far marciare le linee
sindacali e politiche di collaborazione di classe.
Il discorso che si fa nella piattaforma dei metalmeccanici
sulla professionalità, non è altro che il tentativo di creare (attraverso il
controllo sociale e politico degli operai specializzati e dei tecnici, cioè le
5°, 5°s, 6° categorie dell’industria, i capi e capetti di linea) un blocco
sociale interno alle fabbriche che porta avanti le linee della “ripresa” e
si scontra con chi non è d’accordo. All’UNIDAL lo scontro è stato
sostenuto dagli operai delle “celle frigorifere” tutti specializzati, super
pagati e super - garantiri iscritti al PCI, sono loro che hanno permesso che l’accordo
sulla “mobilità” passasse “menandosi” per otto ore con gli operai “esuberanti”
[14].
Il sindacato di inizio anni ’80 si concentra sulla linea
della “svolta dell’EUR” e comincia a frequentare le stanze di Palazzo
Chigi non più per discutere di programmazione e riforme, bensì di compressione
di costo del lavoro, mentre il padronato si concentra sulla sua sfida: far
regredire sensibilmente le conquiste dei lavoratori che si sono susseguite fino
alla metà degli anni ’70, con il rifiuto di attivare le procedure di rinnovo
dei contratti e, preludio dell’avvento del neoliberismo, a partire dalla
disdetta della scala mobile.
Il potere del capitale, in crescita, si scontra con il
movimento operaio sul costo del lavoro, cioè proprio sul tema della
redistribuzione del reddito che è da sempre a radicamento del potere
contrattuale del movimento sindacale e questo, mai realmente unitario, si divide
ulteriormente: “Ci siamo divisi prima su quale contributo dare alla lotta
all’inflazione, poi su tre-quattro punti di scala mobile, lasciandoci
condizionare da una politica con il fiato corto, anziché misurarci su una
alternativa reale alla recessione, alle pratiche monetaristiche,[...] all’aumento
incontrollato della spesa pubblica...” [15].
La ristrutturazione capitalistica è di fatto passata nelle
fabbriche, senza che si determinassero elementi di opposizione, attraverso l’utilizzo
della “politica dei sacrifici”che ha portato a non contrastare il
decentramento produttivo sviluppando così di fatto l’espandersi del lavoro
nero e sottopagato,l’uso massiccio dello straordinario, ecc. ecc. ... Si
comincia così a sviluppare la cosiddetta “economia sommersa”, l’economia
marginale, preparando il terreno alla precarizzazione del lavoro e del vivere
sociale, classica della cosiddetta fase neoliberista-postfordista.
Dall’“operaio massa” siamo così passati all’“operaio
sociale”, che non si è ancora pienamente manifestato, fino al “lavoratore
immateriale”, in una società post-industriale che piace anche agli
intellettuali operaisti, molti dei quali ora postmodernisti, postmarxisti e veri
revisionisti, ai quali sembra confermata la vecchia idea della fabbrica che
permea la società fino a scomparire nel mito della fine del lavoro. Ma queste
sono solo le strambe idee di qualche intellettuale da tavolino. La realtà
neoliberista che si affaccia prepotentemente già dagli anni ’80 trova una
sinistra politica e i sindacati storici che, nella migliore delle ipotesi, non
sono in grado di interpretarla, spesso sono consociativi e cogestori delle
politiche antioperaie. Si terziarizza il sistema produttivo; la controffensiva
padronale attacca violentemente il costo del lavoro, i diritti, le garanzie;
muta la composizione di classe e la sua autonomia è attaccata e svenduta dalle
organizzazioni storiche del movimento operaio. La sinistra storica politica
sceglie il consociativismo contro il conflitto sociale, i sindacati confederali
scelgono la politica dei redditi e la concertazione contro le conquiste e l’autonomia
del movimento dei lavoratori; ma nasce e si sviluppa un nuovo e conflittuale
sindacalismo di base. Ma di ciò discuteremo nella prossima puntata.
[1] A.Negri, “Proletari
e Stato. Per una discussione su autonomia operaia e compromesso storico”Feltrinelli,
Milano 1976, pag. 9
[2] 25 gennaio 1971, a Milano, nello stabilimento della
Pirelli, le Br incendiano 8 autotreni, acquisendo con questa azione notorietà
nazionale. Le Br rivendicano l’attentato lasciando vicino agli autotreni
incendiati un foglio di carta con la scritta “Della Torre-contratto-tagli
della paga-Mac Mahon-Brigate Rosse”, facendo riferimento ad un operaio
licenziato della Pirelli, alla lotta per il contratto in quella fabbrica ed
alle occupazioni di case in via Mac Mahon. In questa prima fase di vita delle
Br, fase che durerà fino al sequestro Sossi nel ‘74, le Br hanno una linea
politica operaista-guerrigliera inserendosi direttamente nelle dinamiche del
conflitto di classe. Per approfondimenti vedi: www.cronologia.it
www3.iperbole.bologna.it/asnsmp/index.htm
[3] Per approfondimenti vedi:
www.cronologia.it www3.iperbole.bologna.it/asnsmp/index.htm
[4] 16-MARZO
1978, con un blitz fulmineo, le brigate rosse uccidono tutti gli uomini della
scorta, e rapiscono il Presidente Moro, uomo simbolo della D.C. e dello
Stato.. Per approfondimenti vedi: www.cronologia.it
www3.iperbole.bologna.it/asnsmp/index.htm
[5] “IL
SESSANTOTTO - La stagione dei movimenti (1960-1979)” a cura della
redazione di “materiali per una nuova sinistra” - Edizioni Associate
Roma, Maggio 1988 pag.114
[6] “IL SESSANTOTTO - La stagione dei movimenti (1960-1979)”
a cura della redazione di “materiali per una nuova sinistra” - Edizioni
Associate - Roma, Maggio 1988 pag.118)
[7] P.Moroni, N.Balestrini “L’orda d’oro”
SugarCo, 1988, oggi su: www.complessoperfoma.it/77WEB/77-33.HTM
[8] “Assemblea dei lavoratori di Radio Città Futura” 15/9/’77,
Archivio CESTES-RDB.
[9] “IL SESSANTOTTO - La stagione dei movimenti (1960-1979)” a cura
della redazione di “materiali per una nuova sinistra” - Edizioni Associate -
Roma, Maggio 1988 pag.119.
[10] L. Lama, “Cari
Compagni”, EDIESSE, Roma, 1986, pag. 121.
[11] Per approfondimenti: L. Lama, “Cari Compagni”, EDIESSE, Roma,
1986.
[12] Per approfondimenti vedi I.
del Biondo - “dalla crisi dello stato liberale all’avvento del
fascismo”- ora in Quaderni CESTES n. 9 pag. 107. A. Pepe, “Il
sindacato nell’Italia del ‘900,” Rubbettino Editore, Catanzaro,
Dicembre 1996, pag. 236.
[13] GIOVANNI CANNELLA (magistrato di Corte d’Appello):pubblicato
su “D&L, Riv. crit. dir. lav.” 4/2001, p.873.
[14] Per approfondimenti vedi “documento sul contratto del ‘79” del
COMITATO OPERAI METALMECCANICI oggi in archivio RdB, CESTES - PROTEO
[15] L.Lama, “Cari Compagni”, EDIESSE,
Roma, 1986, pag.122.