Il contraddittorio legame tra le trasformazioni economico-produttive e alcuni passaggi-chiave della storia del movimento sindacale dal dopoguerra ad oggi (seconda parte)
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
Sabino Venezia
Dal conflitto permanente alla “partecipazione” concertata
Questo lavoro costituisce una prima bozza di discussione che la redazione di PROTEO presenta ai propri lettori dalle cui osservazioni ci proponiamo non solo di “imparare” su un argomento storico-economico tutto aperto, e in cui sicuramente non siamo specialisti, ma anche di prender spunto per le eventuali correzioni di impostazione e gli ulteriori approfondimenti. |
Stampa |
Questo nuovo momento di incontro fra culture si presenta con
precise caratteristiche e grandi potenzialità:
1) il nuovo rapporto si configura come una stretta
connessione e non come una semplice e tradizionale alleanza in cui non vi era l’emergere
di nuove funzioni intellettuali ma semplicemente un patto (per esempio la lotta
antifascista),
2) il nuovo rapporto classe operaia-intellettuali pone su
nuove basi il problema dell’autonomia degli intellettuali e dei tecnici, da
questi vissuta come una differenza specifica delle categorie intellettuali
rispetto alle classi sociali (ideologia della differenza) e come autonomia di
funzioni. Di fatto questa nuova aggregazione risolve il problema dell’organizzazione
del lavoro intellettuale, essenzialmente legato alla trasformazione del processo
di conoscenza, all’uso sociale dei suoi risultati, in uno dei luoghi naturali
fondamentali della conoscenza e della ricerca: la fabbrica. Un nuovo
scenario che obbliga le istituzioni ad un confronto serrato ed accorto e che
costringe le organizzazioni sindacali a meglio adeguare le politiche di unità.
[1]
Tale obiettivo, mai abbandonato negli ultimi anni, trova
però facili resistenze in quelle componenti della CISL e della UIL
particolarmente legate ai partiti di riferimento (DC e PSDI) e saranno ancora
una volta gli operai metalmeccanici, da sempre sensibili alla necessità di
unità sindacale, a dar vita alla più importante esperienza di sindacato
unitario, la Federazione Lavoratori Metalmeccanici (FLM).
La risposta operaia è sintomatica dell’opportunità che si
intravede, forte delle lotte passate e del livello di coscienza ormai radicato
nella categoria, ma la controffensiva del Governo filo padronale e di
significativi settori presenti in CGIL, CISL, UIL non tarda a venire.
Una nuova fase della politica conservatrice, che pur si era
assopita negli ultimi anni, viene riproposta dai repubblicani: dapprima parte
rilevante nell’elezione di G. Leone a Capo dello Stato e poi, dopo la caduta
del Governo di centro-sinistra, con il Governo Vanni (Segretario Repubblicano
della UIL) che dichiara impossibile l’unità sindacale. Dopo alcuni mesi, l’azione
di contenimento di quelle politiche che avevano determinato nel biennio ’69-’70
un arretramento della borghesia italiana, determinerà una svolta conservatrice
attraverso l’elezione di un Governo di centro-destra a guida Andreotti, ostile
al movimento sindacale e in aperto contrasto con ogni ipotesi di trattativa e/o
di accordo politico. I conseguenti dissapori all’interno della CISL, che
vedrà crescere prepotentemente la componente conservatrice e filo-DC, si
tradurranno presto nella fuoriuscita anche di questa confederazione dal processo
di unità sindacale, processo che, da quel 1972, non si riproporrà più se non
nella logica del patto federativo.
5. Gli anni ’70: il contesto socio-economico
In questi anni, l’economia italiana si regge esclusivamente
sull’esportazione [2] di beni (oltre che di capitali) - in virtù del fatto che la
valuta nazionale risulta debolissima -, e sui crescenti consumi privati.
Alla contrazione del sistema economico italiano
contribuiscono principalmente due fattori di carattere internazionale: la crisi
del petrolio (1973) e l’affacciarsi sul mercato mondiale di nuovi paesi
industrializzati [3].
Lo shock del petrolio ha inizio nel 1973, quando, con
dichiarazione unilaterale i paesi produttori di petrolio quadruplicano il prezzo
del greggio, innalzandolo dai 2/3 dollari ai 12 dollari per barile. Un secondo
shock si ha nel 1979, quando il prezzo del petrolio viene quasi triplicato e
raggiunge i 32 dollari al barile. La diretta conseguenza di questa azione è un
forte incremento della domanda di “greggio” e una contrazione dell’offerta.
L’aumento del prezzo del petrolio rappresenta un trasferimento di risorse a
carico dei paesi importatori a vantaggio dei paesi produttori.
La reazione dei paesi importatori non è uniforme. Paesi come
la Gran Bretagna riescono a ottenere che i paesi produttori di petrolio
depositino i maggiori profitti presso il proprio sistema bancario. Ciò ha la
conseguenza di mitigare l’aumento del costo del petrolio, compensato da
maggiori importazioni di capitali, tutto questo è reso possibile grazie ai
tradizionali rapporti coloniali e neocoloniali di questi paesi con il mondo
arabo. Altri paesi, invece, come il Giappone, riescono ad aumentare le proprie
esportazioni verso i paesi produttori o verso altri paesi. Questo porta ad
evitare una caduta dell’occupazione. In ultimo altri paesi, quali la Germania,
riducono le importazioni di petrolio, sostenendo una contrazione, oltre che del
reddito nazionale, anche della produzione e dell’occupazione.
Ma mentre la Germania riesce comunque a conservare in attivo
la propria bilancia dei pagamenti per l’alto sviluppo tecnologico e
industriale, ciò non accade in Italia dove non potendo praticare la prima
soluzione, si arriva a comprimere le attività produttive.
A creare difficoltà ulteriormente alla situazione economica
italiana contribuisce la sviluppo di nuove realtà industrializzate, quali a
esempio la Spagna, il Portogallo, Singapore, etc... È controverso quale sia il
fattore scatenante che rende possibile il veloce sviluppo di questi paesi, ma è
determinante che questi nuovi paesi industrializzati hanno di certo messo in
difficoltà l’industria italiana.
Quindi a rallentare e poi ad arrestare la crescita economica
del nostro Paese contribuì la crisi petrolifera dell’inizio degli anni ’70.
Verso gli inizi degli anni ’70 per tentare di risolvere la
crisi di efficienza e di competitività della grande impresa, una parte dei
nuovi capitalisti italiani emergenti diedero vita a un modello [4] denominato a industrializzazione diffusa (o decentrato)
caratterizzato dalla presenza della piccola impresa con un decentramento che ha
aumentato i divari già esistenti con il ben noto dualismo Nord-Sud; infatti l’industrializzazione
nel mezzogiorno, è avvenuta più per diffusione di impianti costruiti da
imprese del nord, che da aziende vere e proprie sorte nell’area in questione.
In questi anni c’è una forte crescita delle aziende di
piccola dimensione presenti sia nel settore industriale, sia quello dei servizi.
La struttura produttiva e di specializzazione del sistema economico italiano, si
fonda sul ruolo delle imprese di piccole e medie dimensioni. (cfr. Tab.)

Pur essendo questi anni caratterizzati da una serie di
interventi pubblici di carattere sociale (la legge sul divorzio, sull’aborto,
la riforma del diritto di famiglia, il sistema pensionistico nazionale, ecc.)
dal punto di vista economico si ebbe una significativa regressione con una grave
crisi sia del settore industriale sia di quello agricolo.
Il 65% delle aziende agricole era considerato ai margini
della sussistenza e l’80% della superficie coltivata era suddivisa fra due
milioni e mezzo di aziende delle quali più di due milioni con dimensioni minori
a 5 ettari.
La forte inflazione, la riduzione del potere di acquisto dei
salari e la insufficienza delle infrastrutture come trasporti, ospedali, case,
ecc., aggiunte alla crisi petrolifera e al quasi totale abbandono del settore
agricolo, hanno aggravato oltre ogni limite la crisi economica nel nostro Paese.
Il tasso di occupazione è diminuito negli anni che vanno dal
1973 al 1979 dello 0,3% nel settore industriale ed ancora più danneggiato
risultò essere il settore agricolo.
Questa situazione ha dato l’avvio ad una grande stagione di
lotte operaie e studentesche che hanno visto la loro maggiore espressione nel
movimento del ’77, degli studenti e delle nuove figure marginali e precarie
del mondo del lavoro che ha caratterizzato la fine degli anni ’70.
È interessante notare quale sia stata negli anni che vanno
dal 1971 al 1977 la percentuale degli iscritti ai sindacati confederali (CGIL e
CISL).

La crisi economica degli anni ’70 ha generato un enorme
deficit nella spesa pubblica; nel 1988 infatti si arrivò a 110.000 miliardi di
vecchie lire e nel 1990 si è arrivati a 130.000 miliardi di vecchie lire.
Inoltre, per fronteggiare la crescente inflazione, i
sindacati reagiscono chiedendo e ottenendo una revisione del meccanismo della
scala mobile, con l’introduzione nel 1975 del cosiddetto punto unico di
contingenza. Con questo sistema l’indennità di contingenza viene pagata
in misura uguale a tutti i lavoratori dell’industria; il risultato è che, per
la prima e unica volta in Italia, la maggioranza dei lavoratori nel settore
industriale beneficia di una totale copertura contro l’inflazione.
6. I sindacati storici non interpretano la nuova fase del conflitto
sociale
Se gli anni ’70 sono segnati, come si è detto, da notevoli
turbamenti internazionali, (e due crisi del petrolio, la sospensione della
convertibilità del dollaro e il progressivo abbandono del sistema di
Bretton-Woods), il fronte interno è segnato da significativi rivolgimenti
politici. Infatti, l’atteggiamento moderato del PCI facilita l’avvicinamento
del partito al governo. Tale atteggiamento porta anche il sindacato ad assumere
una linea più morbida. La conseguenza successiva, ma già interna alle scelte
consociative dei vertici sindacali a partire dai primi anni ’70, è che, nell’Assemblea
dei Delegati Confederati del gennaio del 1977 le confederazioni dichiarano, non
solo di essere disposte a contenere le richieste salariali, ma anche ad
accettare una maggiore mobilità operaia in relazione alle esigenze di
ristrutturazione dell’industria e in considerazione della situazione
drammatica nella quale sembra che il Paese versi.
Un governo di centro-destra, naturale successore della
strategia stragista, un “rinnovato” ruolo della massoneria (ed un
particolare collateralismo dei servizi di sicurezza) [5], saranno gli elementi di fondo contro i quali il sindacato
italiano stenterà a reagire. In poco tempo la crisi economica (figlia della
più vasta crisi petrolifera internazionale) si risucchierà quella parte del
capitale, sottratto alla borghesia con la lotta e ricollocato nei salari degli
operai; non da meno sarà la svolta sul livello occupazionale, con una politica
dei licenziamenti che durerà ben oltre la pur irresponsabile necessità di
ristrutturazione capitalistica e che, al pari dell’incapacità del sindacato
di investire nella grande forza operaia accumulata nelle lotte, aprirà il
fianco ad una estrema pratica di contestazione (la lotta armata) che, dalle
fabbriche, invaderà ampie fasce di proletariato, coinvolgendolo, a tratti, più
sui contenuti che sulla pratica militarista.
D’altro canto si trattò spesso di un proletariato fatto di
manodopera precaria e inoccupata, legata spesso al lavoro nero, che apprezzava
la lotta degli operai ed il grande movimento che essi erano riusciti a
determinare pur esprimendo criticità sul fatto che i vantaggi sarebbero stati
solo per la classe operaia di fabbrica e non per l’intera classe operaia. Un
proletariato che pagava materialmente l’assenza di uno strumento di tutela,
vista la latitanza dei partiti (anche il PCI) e dei sindacati (per concezione a
tutela dei lavoratori e non dei disoccupati o sotto-occupati). Un proletariato
fatto di giovani - studenti - operai che non apprezzeranno il tentativo di
egemonizzazione del movimento che più tardi il PCI e la CGIL cercarono di
imporre e che ebbe la massima espressione nella “cacciata di Lama” dell’Università
di Roma [6].
Un proletariato che nella Napoli degli anni ’70 (ma anche
in altre realtà come ad esempio Roma) darà vita al movimento dei “disoccupati
organizzati” come strumento extra fabbrica per consolidare il ruolo delle
avanguardie nei quartieri popolari già caratterizzati da una forte presenza di
strutture marxiste-leniniste.
“Ieri mattina a Napoli la polizia ha caricato un corteo
di disoccupati che chiedevano lavoro. Ecco come il governo risolve i problemi di
Napoli... questa è la situazione al Sud, dopo 20 anni di promesse di riforme:
DISOCCUPAZIONE, FAME, INONDAZIONI, COLERA! Le Confederazioni e i riformisti
promettono ancora riforme...Proletari, contro la disoccupazione, contro la fame
e il colera che attanagliano il Sud, battiamoci per il SALARIO MINIMO GARANTITO
di 150.000 Lire al mese per tutti gli operai, occupati e disoccupati. Rifiutiamo
lo straordinario e lottiamo per le 36 ore alla settimana” [7].
L’esperienza, che si concretizzerà con la costruzione di
una serie ripetuta di “liste di lotta”, approderà fin dentro i più alti
livelli del potere, tra la più totale avversione dei sindacati tradizionali, da
sempre contrari ad organizzare il “mondo del non lavoro” (vista anche la
mancanza di risposte da poter dare ai licenziati dopo gli accordi sui tagli) e
tra l’indifferenza dei partiti politici, anche di sinistra, che demonizzavano
chiunque fosse organizzato da strutture extraparlamentari, da sempre catalogate
come scuole di estremismo.
L’assenza di un organismo di tutela di queste classi,
rappresenterà un ulteriore stimolo al consolidamento delle esperienze di
sindacalismo di base della fine degli anni ’70.
A pochi anni da quel fatidico ’69 il ciclo delle lotte
operaie inizia il suo declino, “lo spettro della recessione economica, che
diventa palese con la crisi petrolifera, funziona da pesante arma di ricatto per
far passare una nuova ristrutturazione produttiva” [8]. Il Governo
riscopre il ruolo di sostegno degli investimenti di capitale delle imprese
attraverso i finanziamenti, la politica fiscale, al pari del ruolo di garante
dell’ordine pubblico e della democrazia ed il sindacato viene definitivamente
scavalcato dai partiti nello svolgimento di quel ruolo politico e di mediazione
sociale che ormai non è più in grado di garantire. A riprova di ciò il PCI
del ’76 si conferma un partito di solide basi operaie e, in parallelo alla
costituzione di un Governo di “non sfiducia”, il sindacato, di fatto,
registra una diminuzione della conflittualità e resta relegato alla strenua
difesa delle conquiste del decennio passato. I vertici sindacali accentuano,
peraltro, la distanza dai lavoratori che registrano, nella “linea dell’EUR”,
un modello difensivo attraverso il quale si deve tener conto delle
compatibilità economiche del Paese, con la “politica dei sacrifici”
barattandola con una aleatoria promessa, mai mantenuta, di investimenti e
occupazione, soprattutto nel Meridione.
Negli anni passati il sindacato aveva “cavalcato la tigre”
delle mobilitazioni operaie, finendo per far proprie alcune proposte come l’egualitarismo
e non frenando la conflittualità in fabbrica, che era divenuta ormai
eccessivamente scomoda per gli industriali. Con la conferenza dell’Eur il
sindacato accetta di frenare la conflittualità in fabbrica e fa propria la
politica dei “sacrifici”, cioè di moderare le richieste di aumenti
salariali in cambio della promessa di incrementare l’occupazione.
“...l’obiettivo di interesse generale di quegli anni
fu il lavoro, la difesa e la creazione del lavoro, attraverso un massiccio e
razionale trasferimento di risorse” [9].
È la svolta; per la prima volta nella storia del movimento
operaio dal dopoguerra, il sindacato storico si presta a sperimentare un modello
di relazioni sindacali che non lascerà più. Un modello che riproporrà, sempre
i sindacati confederali come elemento del consociativismo, fino a che con
complici i Governi di centro-sinistra (già nel ’93, per favorire le politiche
europeiste, e più recentemente nel 2004, sugli sviluppi della crisi del modello
economico contemporaneo), saranno addirittura i fautori della “Concertazione”,
nelle sue diverse sfumature ma sempre con l’obiettivo di comprimere il
conflitto sociale, distruggendo così conquiste operaie e costringendo sempre
più i lavoratori sulla difensiva, in un’opera di demolizione dell’autonomia
di classe.
[1] Per ulteriori approfondimenti vedi: Kunth - “Appunti su una esperienza di
nuovi rapporti tra classe operaia e tecnici” - Movimento Operaio /46
DeDonato editore - Gennaio 1978
[2] A esempio per il periodo 1960-1980: le calzature in pelle
passano dal 2,7% al 3,9%, i gioielli passano da 0 a 2,2%, le ceramiche da 2,3% a
4,7%, etc...
[3] New Industrial Countries (NIC) sono variamente distribuiti
sotto il profilo geografico: Europa meridionale (Grecia, Portogallo,...),
America Latina (Brasile e Messico) e i più aggressivi sul piano mondiale in
Estremo Oriente (Corea del Sud, Hong Kong, Singapore...)
[4] In un lavoro di
Tassinari, in cui elabora lo sviluppo occupazionale tra gli anni ‘70-’80, si
nomina tale modello.
[5] Per maggiori
approfondimenti vedi G. De Lutiis, “Il lato oscuro del potere” Editori
Riuniti, Roma, 1996
[6] Per approfondimenti: “Intervento al dibattito su Lotta Continua
del 17 Settembre di un gruppo di compagni del Movimento Romano” a cura di
P.Bernocchi, E.Compagnoni, R.Mordenti, M.Scalia ed altri, oggi su
www.tmcrew.org/movime/mov77/rcfutur.htm
[7] Tratto da: “Lotte
Operaie”, supplemento murale al Bollettino Sindacale dei Comunisti
Internazionalisti (la Rivoluzione Comunista) aderenti alla CGIL n°28 del
23/9/1973.
[8] M. Turchetto, “Dall’Operaio
Massa all’imprenditorialità comune: la sconcertante parabola dell’operaismo
italiano” oggi su: www.intermarx.com/temi/oper1.html
[9] L. Lama, “Cari Compagni”, EDIESSE,
Roma, 1986, pag. 56.