Le coorti di immatricolati mediamente si dimezzano l’anno successivo
e il tempo medio di chi si laurea è di 7 anni e sono numerose le presenze di
studenti per i quali, dopo 10 anni di iscrizione, ancora non si è in grado di
valutare la probabilità di laurea.
Come abbiamo già detto, i risultati della Sapienza sono perfettamente
coerenti con i dati di tutti gli atenei italiani e se in alcune facoltà di una
sede si hanno risultati peggiori che in altri casi, si può dire che il 60% di
abbandoni stia a significare qualcosa di diverso del 50%?
A solo titolo d’esempio, nelle tabelle 2 e 3, si riportano
dati dell’università di Pisa e nella tabella 4 dell’università di Torino,
in entrambi i casi tratti dal volume di Bottiroli, Camiz di cui alla nota 2.



Alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino,
degli immatricolati nell’anno accademico 1981-82, a laurearsi entro i primi
12 anni è il 12%, impiegando in media quasi 7 anni ma essendoci un 6% di studenti
ancora iscritti alla fine del periodo di osservazione, periodo triplo della
durata legale del corso. Non è migliore la situazione degli studenti dell’ateneo
di Pisa, dove a restare iscritto, dopo 3 anni dall’immatricolazione è intorno
al 50% degli studenti, con un numero medio di esami superati che non da certo
garanzie per quanti risultano ancora iscritti.
Tanto per completare il quadro, nella tabella 5, si
riportano i dati retrospettivi (di fonte ISTAT) che mostrano l’evoluzione dell’università
italiana, dall’anno accademico 1936-37 al 1993-94. Nelle ultime tre colonne
sono riportati tre rapporti indicatori del livello di efficacia nel tempo, ottenuti
rapportando il numero dei laureati rispettivamente agli iscritti in totale,
agli iscritti al primo anno contemporanei dei laureati e (anche come indicatore
di costo) al numero di professori utilizzati per ottenere il risultato.

3. L’innovazione dei corsi di studio... sarà il risultato del disegno autonomistico
degli atenei
La soluzione di tutti i problemi, la sostanza di tutte le riforme,
ci viene detto, è nell’autonomia didattica, ”il disegno autonomistico degli
atenei condizione e punto di approdo della riforma universitaria” è un processo
che dovrà impegnare la comunità universitaria.
Nel febbraio del 1997 è stato istituito un “Gruppo di lavoro
su Autonomia didattica e innovazione dei corsi di studio a livello universitario
e post-universitario” presieduto dal sociologo, prof. Martinotti. Alla fine
di ottobre dello stesso anno il gruppo di lavoro ha reso pubblico un documento
che è, a detta dello stesso, conclusivo di una prima fase dei lavori, svoltisi
dal 14 febbraio al 3 ottobre del 1997 (per la lettura del testo si veda l’indicazione
bibliografica della nota n.3).
Ho riportato il decreto istitutivo della commissione perché
mi sembra interessare evidenziare come la commissione abbia ritenuto di invertire
l’ordine delle esigenze da soddisfare. Come può una commissione, cui sia stato
affidato il compito di verificare lo stato di attuazione di normative importanti,
di valutare i fabbisogni formativi e di proporre “dei criteri generali” per
l’attuazione dell’autonomia didattica delle università, cominciare non dal primo
ma dall’ultimo dei suoi impegni. Come si può proseguire sul cammino intrapreso,
magari modificando la strada, senza valutare la qualità dei risultati conseguiti?
Si tratta di un documento che ha avuto una certa risonanza
all’interno del mondo accademico, anche se la sua lettura non è sempre agevole.
Vi domina una parola d’ordine, che è appunto autonomia.
Sono convinta anch’io che l’autonomia organizzativa e finanziaria potrà favorire
l’iniziativa della parte più vitale dell’accademia e che da ciò potrà poi derivare
un miglioramento di tutto il sistema, ma solo a fronte di una politica attiva;
è troppo semplicistico e generico dire che è “uno strumento per ottenere un
deciso miglioramento qualitativo dell’insegnamento e delle condizioni di funzionamento
dell’università italiana”, sembrerebbe che questa fiducia discenda dalla convinzione
che l’uomo è naturalmente buono.
“Il processo di autonomia delle università, iniziato da alcuni
anni, giungerà al suo completamento, almeno da un punto di vista giuridico,
con l’emanazione dei decreti previsti dalla legge 127/97, ma non potrà dirsi
realizzato senza un complesso e graduale processo di revisione dell’intero sistema
universitario, di carattere sia strutturale che culturale, che pur ne tuteli
i numerosi aspetti positivi”, tutto quello che ci viene proposto sarà fatto
“nella prospettiva di una università aperta al territorio, in grado di offrire
una didattica di qualità e di preparare i giovani alla competizione che li attende
nel mondo del lavoro nazionale ed internazionale.”
Tutte le frasi virgolettate sono, come le precedenti, del Ministro
e sono usate a presentazione o a difesa del documento all’interno di pubblicazioni [i] dirette al mondo
accademico e quindi non per informare una popolazione poco coinvolta o poco
a conoscenza della natura dei problemi, si poteva essere più precisi circa le
azioni positive, così entrare nel merito è difficile, ho l’impressione che prevalga
una generica volontà e una ancora più generica proposta di mutamenti.
Qui non si vuole certo contestare l’intenzione di rendere le
strutture didattiche più autonome. L’autonomia didattica, scientifica, organizzativa,
finanziaria e contabile delle Università è sancita e ha trovato regolamentazione
nelle leggi, la 168 del 1989 e la 341 del 1990. In queste leggi sono contenuti
i principi fondamentali delle successive leggi 537 del 1993 o 127 del 1997,
finalizzate, non tanto ad innovare ma, come recita la n.127, a snellire l’attività
amministrativa e i procedimenti di decisione e di controllo.
In realtà lo spirito innovativo, efficientista, in alcuni casi
ha portato a decisioni molto discutibili perché hanno rimesso in discussione
proprio quella autonomia in altri casi enfatizzata.
Si sa, la democrazia non è sempre comoda, qualche volta decisioni
accentrate potrebbero essere più efficienti, perché fatte nel superiore, comune
interesse, ma questo non giustifica un drastico ridimensionamento delle istanze
di rappresentanza. Questo però è proprio quello che si è fatto.
Innanzi tutto si è attuato un forte ridimensionamento di organi
elettivi come il Consiglio universitario nazionale (CUN), organo di rappresentanza
delle istituzioni autonome universitarie, che si è visto ridimensionato nel
numero e, quel che è peggio, nelle competenze. E’ vero che nel CUN in qualche
caso ha prevalso l’imposizione di interessi assolutamente di parte, ma la medicina
ha ucciso il malato!
Inoltre, con l’intento dichiarato (e in sé corretto) di evitare
finanziamenti a pioggia si è in realtà rinviato ad un piccolo gruppo di saggi,
cinque in tutto, la delicata decisione sulle ricerche da finanziare da parte
del Ministero della Ricerca Scientifica e Tecnologica.
Oltre a ciò è stato decurtato il finanziamento pubblico che,
almeno rispetto alla Sapienza, sembrerebbero non coprire neppure le esigenze
per le retribuzioni del personale dell’ateneo. Questi fatti forse vogliono invitare
gli Atenei ad una maggiore attenzione alle leggi del libero mercato. Ma niente
paura, anche se l’accademia sarà occupata a far soldi per pagarsi lo stipendio,
la scarsa efficacia del sistema sarà risolta... col principio della contrattualità
tra studenti e ateneo.
4. Studente - contraente
Sembrerebbe che la constatazione della parziale inefficacia
del nostro lavoro induca la classe docente nel suo insieme a mettere più in
discussione il senso del ruolo dello studente piuttosto che quello proprio.
Lo studente viene a volte assimilato ad un cliente e infatti
in questionari di facoltà, per misurare il loro grado di soddisfazione vengono
utilizzate le tecniche di valutazione della soddisfazione del consumatore;
chiedendo loro ad esempio se ritengono che il professore abbia svolto compiutamente
il programma, piuttosto che limitarsi a chiedergli qual è la percentuale della
lezione risultata chiara o quante delle lezioni previste sono state effettivamente
svolte o quanto sono stati utili gli strumenti didattici utilizzati.
Un punto chiave, indubbiamente nuovo, sviluppato dal gruppo
di lavoro per l’autonomia è quello del “principio di contrattualità,
cioè la trasformazione dell’attuale meccanismo di iscrizione in cui studentesse
e studenti sono poco più che passivi soggetti d’imposta, in un accordo trasparente
mediante il quale entrambi i contraenti si obbligano a una serie di prestazioni
i cui contenuti in termini di obblighi e diritti sono trasparenti e verificabili
da entrambe le parti”.
Mi sembra che la proposta evidenzi la presenza di una certa
confusione circa la natura del rapporto docente (che insegna) - discente (che
apprende). Alla voce studente, il vocabolario dell’enciclopedia Treccani, dice
semplicemente: giovane che segue con regolarità un corso di studi. Il problema
non è dunque di attribuire un nuovo ruolo (da soggetto di imposta a contraente)
ma di capire perché il corso di studi è divenuto così impervio e poi intervenire
con azioni concrete, tra cui anche semplicemente lo snellimento dei programmi
e riconsiderando le forme di didattica.
Ma andiamo a vedere più da vicino cosa si intende fare col
“principio di contrattualità”.
Se l’ipotesi di riforma sarà attuata, non solo il docente,
anche lo studente deciderà se essere tale a tempo pieno o a tempo definito,
il tempo sarà inserito nel suo titolo di studio e un titolo temporalmente più
breve costerà di più di uno lungo.
Ma la commissione risolve anche un altro grave problema, quello
che, da quando è stato eliminato l’obbligo di seguire un percorso formativo,
gli abbandoni degli studi avvengano sempre più spesso dopo aver superato un
certo numero di esami.
Si prevede infatti l’istituzione del c.u.b. (certificato universitario
di base), che non sembra essere nulla di diverso dell’attuale certificato degli
esami sostenuti, cui però verrebbe riconosciuta la dignità di titolo. Si tratta
dell’attestazione che lo studente ha acquisito un certo numero di competenze,
finalizzate singolarmente a professionalità, in campi diversissimi e dunque
ha svolto attività globalmente non professionalizzante. Il cub è una specie
di premio di consolazione per chi ha messo insieme un certo numero di esami
e una certa quantità di attività, variamente affastellati e costituenti credito
didattico.
Volevamo che tutti i giovani diplomati della scuola media potessero
accedere all’università e così è stato, li abbiamo fatti venire quel tanto che
bastasse per pagare meno le tasse dei giovani più aderenti al modello cui abbiamo
continuato a riferirci nell’organizzazione della didattica. Ora, presi dallo
scrupolo, rilasceremo ricevuta.
La cosa non è di secondaria importanza perché con questa bella
idea assicuriamo la risalita della nostra efficacia di docenti. Non siamo salvi
solo noi, è la nazione ad essere salva, il numero delle persone con titolo universitario
corrisponderà a quello degli altri paesi della comunità.
[i] Università
Ricerca, Notiziario bimestrale del Ministero dell’Università e della Ricerca
Scientifica e Tecnologica, n.6 anno 1997 e n.1 anno 1998